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LA CALANDRIA e LA MANDRAGOLA di Michele Scornajenghi 1908

27/03/2001
e
 
di
Michele Scornajenghi
Cosenza 1908
Tipografia editrice Riccio 
 
 
 
Scansioni ed elaborazioni digitali: carlo cosenza 2001 
 
 

La Calandria e la Mandragola/Bibliografia

 

I. Pietro Napoli Signorelli - Storia critica dei teatri - Napoli 1788
II. A. W. Schlegel - Letteratura drammatica - Napoli - 1840 vol. 3°
III. Le commedie di Niccolò Machiavelli - Firenze, Barbera - 1863
IV. A. Agresti - Studi sulla commedia italiana del secolo XVI. - Napoli - 1871
V. E. Camerini - I precursori del Goldoni - Milano, 1872
VI. V. De Amicis - L'imitazione classica nella commedia italiana del XVI secolo - Pisa, 1873 vol 2°
VII. Vincenzo De Amicis - Annali della scuola normale superiore di Pisa - vol. II - Pisa - Nistri - 1873
VIII. Carlo Gioda - Machiavelli e le sue opere - Firenze - Barbera - 1874
IX. Arturo Graf - Studi drammatici, Torino - Loescher - 1878
X. Molière - Commedie scelte - "Il Tartufo" Fratelli Treves - Milano - 1880
XI. Renaissance in Italy - Symonds - Londra 1881
XII. A. Moretti - Bernardo Dovizi e la Calandria - Nuova Antologia - 15 giugno 1882
XIII. A. D'Ancona - Origini del teatro in Italia - 2a ediz. - Vol. due - Torino - Loescher - 1891
XIV. R. Wendriner - Le fonti della Calandria - (in tedesco) Halle, 1895
XV. Jarro - F. Ulrich - Leipzig - 1896
XVI. V. P. Spampanato - La Mandragola di Niccolò Machiavelli nella commedia e nella vita italiana del 500 - Nola - 1897
XVII. U. G. Mondolfo - La genesi della Mandragola ed il suo contenuto estetico morale - Teramo - 1897
XVIII. P. Villari - N. Machiavelli e i suoi tempi - 1895 97 - 2a ed.
XIX. I. Del Lungo - La recitazione dei "Menaechmi" e il doppio prologo della Calandria in Florentia - Firenze - 1897
XX. G. Mandaini - Il Machiavelli comico, genesi storico-psicologica del fenomeno, in "Pensiero italiano" - Marzo - 1898
XXI. G. A. Galzigna - Fino a che punto i commediografi del Rinascimento abbiano imitato Plauto e Terenzio - Copodistria - 1900
XXII. G. B. Pelizzaro - La commedia del secolo XVI e la novellistica anteriore e contemporanea in Italia - Vicenza - 1901
XXIII. Viese e Percopo - Letteratura italiana - 1904 - U. T. E. Torino
XXIV. Albèri - Relazione degli ambasciatori veneti - Relazione di Marin Giorgi - pag. 52
XXV. Vernarecci - Archivio storico per le Marche e l'Umbria III. 181 e seg.
XXVI. De Sanctis - Storia lett. vol. II
XXVII. Francesco Flamini - Il cinquecento - Vallardi - Milano
XXVIII. Plauto - Commedie - Collezione classici latini
XXIX. Boccaccio - Il Decamerone.
XXX. N. Riv. Miseno - VII. fasc. - Un carnevale alla corte di Urbino e la prima della Calandria.
XXXI. Corniani - I secoli della letteratura italiana - Vol. II. (contronto tra la Caladria e la Mandragola". Torino U. T. E.
XXXII. R. Cardamone - Del Teatro
XXXIII. Castiglione - Il Cortigiano - Ediz. Economica
XXXIX. Giraldi - Opere - Loescher.

 

 

Condizioni dell'Italia e l'arte drammatica nel secolo XVI

 

Mentre l'Italia per arte, per scienze, per lettere rinasce, tanto che il mondo sembra rinnovarsi e ringiovanirsi illuminato dalla cultura italiana; mentre la scolastica cede il posto alla filosofia, e mentre comincia lo studio delle scienze naturali, progredisce il commercio, si moltiplicano i viaggi, s'inventa la stampa e l'erudizione classica si diffonde dappertutto; mentre Brunelleschi crea una nuova architettura, Donatello fa risorgere la scultura e Raffaello e Michelangelo la pittura, il popolo italiano ricco, industrioso ed intelligente va corrompendosi rapidamente. Scompare la libertà, sorgono tiranni, i vincoli della famiglia sembrano indebolirsi ed il focolare domestico profanarsi. Quale contrasto!...
Il popolo italiano nel cinquecento, nutritodi tutta la cultura antuca, disprezza la fede e ride della morale. Esso si trova dinanzi ad Alessandro Vi con meretrici ed assassini^; Giulio II con forestieri e soldati mercenari; Leone X con buffoni ed adulatori; Clemente VII e Paolo III con figluoli bastardi ai quali davano ricchezze e signorie; Paolo IV con l'Inquisizione ed i Gesuiti. Per questi osceni baccanali della Chiesa romana, dice il Settembrini, (1) la Cristianità occidentale si travagliò in un grande scisma, che divise i popoli del Settentrione da quelli del mezzogiorno.
I sacerdoti, gli uomini di stato, gli scrittori, i poeti, gli artisti, gli uomini tutti d'Italia nel Cinquecento non sono altro che intelligenze, senza affetti grandi, senza sentimento religioso e, quel che è peggio, senza morale. E l'assenza d'affetto e di morale è la causa di quanto avvenne nella vita. e di quanto fu rappresentato nell'arte.
Da un pezzo poi i Papi del Rinascimento s'erano abbandonati alla vita mondana ed ai vizi; ma specialmente il Borgia, perduto ogni pudore ne menava vanto e ffaceva pompa cinicamente. Fino ai tempi di Alessandro VI non s'era visto, né si vide mai la religione tanto profanata dal Santo Padre, in mezzo al sorriso ironico ed ai più spudorati baccanali, tutto ciò accompagnato da un'aria d'ingenua bonarietà! (2).
Già la società era corrotta; e sotto il pontificato di Alessandro Vi il confessore dei malati dell'ospedale di S. Giovanni in Laterano, quando sapeva di qualcuno che avesse denaro, lo rivelava subito a lui, qui dabat ei recipe, e poi dividevano fra loro la preda.
Non solo a Roma, ma nblle diverse parti d'Italia, sotto lo splendore dell'arte si nascondeva una corruzione grande e profonda.
Poco tempo prima del cinquecento il Boiardo nel suo poema, in cui non mancano sensualità e scherzi osceni, perchè sono nella vita, dando un'importanza eccessiava all'amopre, ci presenta il secolo in cui esso poema fu scritto.
E' un mondo piieno di varietà, d'immaginazione, dio affetto, ed in esso il poeta vide e s'illude. Ma purtroppo questa illusione doveva durar poco. Invano egli diceva:  che invece ogni cosa precipitava a rovina. Ben presto dovette avvedersene egli stesso ed alla fine del secondo libro, la sua malinconia si tradisce:  Sicchè l'Italia, mentre le altre nazioni uscivano dal Medio evo, giunta al maggior punto di sua grandezza, incominciava a declinare. Altri venivano e s'appropriavano a danno di lei dei tesori dell'arte e del sapere, perdevasi la libertà, e quel fiorire delle lettere e delle arti di allora, che era il nobile e genuino frutto dei secoli antecedenti, doveva durare assai poco:; durar tanto quanto era necessario per cominciare a mostrarsi e splendere e poi appassire.
Le discordie dei principi italiani, chiamavano in Italia il re di Francia, Carlo VIII. E questa fu una grande sventura nazionale, perchè incominciarono le malaugurate invasioni straniere, onde l'Italia da quel tempo fu contesa tra Francesi e Spagnuoli, finchè restò a quest'ulòtimi.
Firenze allora fu l'ultimo baluardo della libertà italiana, ma, dopo il glorioso assedio del 1530, domata dalle armi Papali e Imperiali congiunte, essa dovette accogliere i Medici già banditi, non più come cittadini, ma col titolo di Duchi.
Così' prostrati gl animi e fatto l'abito al servire, le corti, che già accoglievano i dotti, i poeti, gli artisti, ebbero ora in essi, prescindendo dall'ingegno e dalla dottrina, una turba di adulatori e di servi.
Di questo cadere degli animi, tuttavia, vi sonoi generosi lamenti negli scrittori stessi del tempo, e basterebbe ricordare le belle e nobili parole con cui il Machiavelli chiudendo il suo libro del Principe, si augura di vedere risorgere l'Italia pe rmano di qualche magnanimo, e gli accenni alle sventure della patria, fatti qua e là dall'Ariosto. Ma quelle erano voci discorsi e solitarie e nulla più. Il dominio della nostra Pastria, passando da mano straniara ad altra straniera del pari, non ebbe più che uno scopo ed un mezzo per raggiungerlo. Lo scopo era di opprimere; il mezzo era la corruzione. Il senso nazionale si spegneva, mentre il mal costume e l'ignavia dilagavano. già nel sencolo antecedente uomini di cuore e d'ingegno prevedettero la prossima rovina d'Italia, indotti a ciò dallo spettacolo tristo delle discordie cittadine e del costume corrotto. Oltre al Boiardo già citato, anche il Sannazzaro, il Tebaldeo, il Cariteo, il Panfilo Sassi ed altri, ci danno l'eco della grande sventura nazionale. era generale il sentimento che si assisteva ad una catastrofe di imprevedibili conseguenze, che si decidevano le sorti d'una nazione, per lungo tempo, e l'amore per la grande patria si destava più forte appunto allora che la si vedeva in tale pericolo.ò. A Firenze predicava il Savonarola, annunziando grandi sventure come pena ed espiazione. Predicava con crescente ardore la riforma dei costumi e la difesa della libertà, predicava la necessità di una riforma della chiesa, caduta nella più triste corruzione. il dolore e l'apprensione erano vivi, è vero, ma provocavano semplici lamenti, con una valida resistenza; mancavano i mezzi e la concorida; i tempi della lega Lombarda erano passati!...


Mentre vediamo decadenza e corruzione morale da una parte, bisogna dall'altra ammirare la maravigliosa bellezza che risplende nelle opere di tanti e così grandi artisti, di sopra citati. Ma perchè tanta disparità?
La corruzione molto grande del Rinascimento italiano si era diffusa principalmente negli ordini superiori e più culti della società, massime negli uomini politici ed anche in quelli di lettere; ma come era penetrata assai meno come dice il Villari (2) negli ordini inferiori. E ciò spiega perchè la storia assai di rado può ricondare fatti ingiouriosi davvero al carattere morale di coloro che arrivarono ad essere sommi nell'arte, i quali furono quasi tutti d'origine più om meno popolare.
Di più una prova migliore si può vedere nelle lettere di una gentildonna Fiorentina, Alessandra Macinghi negli Strozzi, pubblicate da Cesare Giusti (4), scritte nel secolo XV, dimostrano assai chiaramente come gli affetti di famiglia si mantenessero ancora purissimi in quella parte della cittadinanza che non era guasta dalla vita pubblica.
Certo è però cghe il contrasto tra il progresso intellettuale e la decadenza morale si presenta continuo, costante nei secolo XV e XVI, e noi possiamo vederlo anche nella storia delle lettere, ora che di classica ed erudita essa diviene nazionale e moderna, specialmente per spesa del Ferrarese Ariosto.
La drammatica nel 5000, la quale rispiecchia esattamente la vita ed i costumi del secolo, fu un'imitazione dei tragici e dei comici antichi. Perciò non si ebbe la tragedia che rimase soffocata da questa imitazione, ed infatti in un tempo in in un tempoo in cui lo scetticismo invadeva gli animi e le istituzioni politiche si decomponevano, la nazione non riusciva a formarsi e le invasioni straniere incominciavano, non era possibile la tragedia, che è il poema delle grandi passioni.
La "Sofonisba" del Trissino e la "Rosmunda" del Rucellai, tragedie di quel tempo non abbandonano mai il modello antico, nè avranno una vera e propria vitalità. In mezzo a tante sventure, in Italia allora si rideva troppo, e perciò fu più fortunata la commedia, sebbene si andasse formando con l'imitazione, specialmente di Plauto e Terenzio, dai quali genereralmente parlando, si usava togliere il soggetto ed il disegno.
Quesat coommedia, che fu chaimata erudita, si diffuse largamente fra i letterati nelle corti, senza mai confondersi con l'altra ch era detta commedia dell'arte, preferita dal popolo, perché la prima era sempre un'opera di letterati ed un lavoro di imitazione.
Ma l'una e l'altra s'andavano ravvicinando; la commedia dell'arte s'andava ripulendo, modificando ed alterando, mentre l'altra, sebbene non lasciasse del tutto l'imitazione di Plauto e di Terenzio, pure si sforzava continuamente d'accostardi al popolo.
I nostri eruditi cominciarono subito con l eimitazioni, traduzioni, rappresentazioni in italiano ed in latino dei due comici Plauto e Terenzio e nelle commedie in latino di Leonardo Bruni, di Pietro Paolo Vergerio, di Ugolino Pisani, di Antonio Tridentone, di Enea Silvio Piccolomini, di Antonio Basizio, nei dialoghi scenici di Sicco Polento e di Luigi Morelli, gli esemplari classici sono seguiti a volte con avvedutezza e sempre con piena intelligenza del testo: vi si nota una certa libertà d'azione, talora anche qualche personaggio o qualche scena che sembra preannunziare la Mandrangola. Ma ciò non deve trarci in inganno. Se codeste commedie non sono prive d'importanza per noi, dacchè dimostrano che, mentre il popolo era tutt'occhi e tutt'orecchi per gli spettacoli religiosi, i dotti avevano la mente ai classici anche nella drammatica; se più d'uno dei pregi di Suppositi, del Negromante, della Mandragola e delle altre commedie di cui ci accingiamo a parlare sono già nella "Poliscena" del Bruni, nel "Philodoxus" dell'Alberti; nulla debbono quelle a queste in effetto. Che l'Ariosto e il Macchiavelli le conoscessero, è poco credibile; certamente gl'impulsi ed i modelli vennero loro di altronde.
Si volle ritornare però ai capolavori dell'antichità classica, senza tener conto di quel che si era fatto a loro imitazoine, anzi in aperto contrasto con i tentativi anteriori; si vollero non solo rileggere, ma udire sulla scena i capolavori sessi. Ora da tali audizioni, ripetute e gradite, sorse l'idea d'una imitazione nuova, più matura e cosciente, fatta non in una lingua estinta da secoli, ma nell'idioma nazionale, ormai addestratosi alla drammatica delle Sacre Rappresentazioni e nelle favole mitologiche.
Gli spettacoli scenici erano frequenti primamente a Ferrara che si può chiamare il centro del movimento drammatico, ai tempi d'Ercole I d'Este, che favoriva lo studio dei classici, ne raccogliea i codici e ne commettea traduzioni ad uomini come il Boiardo o Niccolò Leoniceno.
Nel 1486 si recitarono i "Menaechmi", nel 91 "l'Anphitruo", e poi i "Menaechmi" si vollero sentire più volte; ed erano recitate non nell'originale ma nelle traduzioni fatte da Pandolfo Collenuccio, Girolamo Berardi, Battista Guarini e Paride Ceresani che qua e là ampliavano o mutavano il testo.
Eppure a Ferrara nacque la nuova commedia di cui fu iniziatore Ludovico Ariosto. Con lui la commedia erudita uscita dalle mani degli accademici acquistò indipendenza e naturalezza, sempre più avvicinandosi alla società dei suoi tempi, e questa società c'è rappresentata nella corruzione, senza velo, e la satira sferza i costumi del tempo: uomini che s'imbellettano come deonne; poveri che vogliono far da ricchi; reggitori di terre che sono rapaci come lupi; preti che danno scandalo d'ogni sorta; papi che vendono indulgenze, ed a questa commedia dava vita uno spirito mordace e satirico, una grande semplicià e sensualità che sono caratteri proprii della letteratura del 500 in Italia.
Ma la commedia erudita e d'imitazione si va avvicinando a quella dell'arte e trova finalmente nel dialogo in prosa la sua propria forma, con la "Calandria" del Cardinal Bibbiena. Però chi dette il vero carattere alla commedia italia fu il Machiavelli, che, col suo grande spirito comico e satirico scrisse la "Mandragola", con la quale superò tutti.

 

Bernardo Dovizi e la Calandria

 

 Bernando Dovizi nacque a Bibbiena il 4 agosto del 1470; a Firenze egli si accostò ben presto a Giovanni, figliuolo di Lorenzo dei Medici, lo seguì nell'esiglio ed alla Corte romana, dove Bernardo fu adoperato da Giulio II in affari politici. Egli fu un capo ameno, molto pratico però, contribuì assai all'elezione del Papa Leone X e ne fu compensato ben presto, essendo stato creato tesoriere e poi il 23 settembre del 1513 al Cardinale.
Più tardi il Dovizi fu legato presso l'esercito Pontificio nella guerra contro Urbino e nel 1518 legato in Francia. RItornato per il sospetto d'avere intrigato con la Francia, perdè ogni favore e il 9 Novembre del 1520 morì improvvisamente e si sospettò che Leone X lo avesse fatto avvelenare, perché mirava ambiziosamente al Papato. Abile politico ed insieme amante della vita allegra, il Bibbiena per entrambe queste due qualità era accetto a Leone, che quando si trovava in mezzo a prelati di simil genere, ai suoi poeti e ai suoi artisti, pareva veramente infelice.
Alberi, nella "Relazione (1) citata da Marin Giorgi", dice che Leone X, dopo l'elezione, incontrando il fratello Giuliano disse: "Godiamoci il Papato, poichè Dio ce lo ha dato".
Desiderava godersi più di tutto la vita, non tanto sensualmente, uanto esteticamente, e quello che in corte ordinava le feste, ammaestrava i buffoni era il Cardinale Bibbiena, il quale scrisse na commedia dal titolo "La Calandria", fu recitata in Varicano, nelle stanza dell'autore, nel 1518. Il Bibbiena non era un poeta; ma scrisse alla buona per divertire il pubblico e vi riuscì, tanto che il popolo, il Papa, il Cardinali, i personaggi più auotrevoli del tempo lo ascoltarono, ridendo e lo applaudirono.
La sua commedia è d'imitazione classica, ricorda la "Casina" di Planto e toglie il motivo principale dai Menaechmi così cari ai nostri cinquecentisti, imperniandosi sulla somiglianza di due gemelli, cagione di scamii curiosi, e resti questi scambii ancor più comici dal fatto che i gemelli s'immaginarono di sesso diverso. Nel prologo l'Autore dichiara che non vuole usare il verso, "perchè la commedia rappresenta cose familiarmente fatte e dette, e perchè ci si parla in prosa con parole sciolte e non ligate". Si scusa inoltre coi suoi uditori, se la commedia non è antica, perchè le cose moderne piacciono più; si scusa anche se non è latina (p.21)